Chiara Maci è la prima vera foodblogger italiana. Seguita da oltre 1.000.000 di follower sui social, è un volto noto anche del piccolo schermo. Ci racconta il suo rapporto con il mare e con il cibo
by Francesca Portoghese – photo by Alex Alberton and Loris T. Zambelli
SONO TANTI I PROGRAMMI DI CUCINA CHE HANNO VISTO PROTAGONISTA CHIARA MACI, come pure diversi sono i titoli dei libri che ha scritto, l’ultimo a quattro mani per HarperCollins, “Ma tu come la fai la caponata?”, insieme al suo compagno, l’oste e cuoco (non si fa mai chiamare “chef”) Filippo La Mantia. Chiara è anche una grande amante del mare con cui ha un legame privilegiato e che rievoca come elemento salvifico e fonte di grande ispirazione culinaria. Vero guru del mangiare bene, lei si diverte a girare per l’Italia alla scoperta dei sapori, dei profumi e delle tradizioni con il suo programma “L’Italia a Morsi”, in onda su Food Network.
La sua creatività, fatta di buono e di bello, le permette di coniugare egregiamente vita privata e lavoro, trasformando l’uno nella linfa vitale dell’altro, perché per lei, mamma di Bianca e Andrea, la cucina è amore, ricordo, emozione.
È una liaison di grande simpatia reciproca quella che la lega al cibo, che diventa interpretazione della sua personalità. Durante una piacevole chiacchierata, in una mattina di fine settembre, con un contagioso entusiasmo ed una passione rara, Chiara parla come un fiume in piena del suo amore per il mare, retaggio che ha tutto il sapore della famiglia, e di cosa sia per lei il buon mangiare. «Potrei parlare per ore», mi dice. E il suo racconto sarà come un bel viaggio, scandito dal rollio e dal beccheggio di una barca che va per mare, tra tanti ricordi che sanno di salsedine e profumano di buono. Il rapporto ancestrale con la barca, con il mare e con il cibo, tutti e tre intrinsecamente legati dall’amore filiale e familiare, è ciò che la anima di più. L’attaccamento alla sua terra non è questione di provenienza: Chiara sa di appartenervi e ci si riconosce. Per amore e per lavoro vive a Milano, ma è nata nel Cilento e, grazie alla passione per i vini trasmessa dal papà salentino e dalla mamma bolognese, da giovanissima diventa sommelier.

I sapori del Cilento sono nel mio Dna, così come i suoi profumi e i suoi colori.
«Io sono nata innamorata del mare», comincia subito. «Mio padre ci ha insegnato ad amarlo e a non averne mai paura. Ad Agropoli, dopo la scuola nella bella stagione e sempre nei fine settimana, i miei genitori ci portavano in barca». Senza abbandonare il sorriso, la sua voce quasi si incrina quando comincia a parlare del gozzo sorrentino di famiglia, una barca da pesca di antichissima tradizione marinara tipica della Campania. «Mentre io, mia madre e mia sorella ci concedevamo interminabili bagni di sole a prua, mio padre e mio fratello andavano a pescare e tornavano con reti piene di ricci da mangiare a bordo. Nei miei ricordi di bambina, vedo noi cinque uscire di casa la mattina presto con la borsa frigo, piena sempre degli stessi ingredienti, quelli che da soli fanno la felicità: friselle pugliesi, mozzarelle di bufala appena fatte e pomodori. Bagnavamo le friselle nell’acqua di mare, le condivamo con l’olio buono e il rigore della cucina ricercata, del piatto impeccabile a cui eravamo e siamo abituati in famiglia, lasciava il posto alla semplicità delle friselle che in quel momento erano la cosa più buona del mondo. E secondo me lo sono ancora. Ciò che mio padre non si faceva mai mancare, però, era il piacevole rito di aprire una bottiglia di buon vino anche sul gozzo».

Quella campana è una cucina semplice, fatta in gran parte di sapori della terra, tante verdure e tanto mare, i due ingredienti che uso di più nei miei piatti e che appartengono alla dieta mediterranea, la bibbia con cui sono cresciuta e che mi ha formata.
Oltre a vantare un mare incantevole, il Cilento è la culla del buon cibo. E da questi ricordi è innegabile la sua influenza sulla tua passione. Quanto ti porti dentro dei sapori della tua terra? Spesso mi chiedono come mai io mi senta cilentana. È vero, quando avevo dieci anni abbiamo lasciato il Cilento per trasferirci a Bologna eppure, sulla mia pelle e nella mia anima, io sento di appartenere a quella terra. Sin da quando ero piccola, i miei genitori mi hanno portato in giro per il mondo, adesso viaggio tanto per lavoro, ma poi amo sempre tornare là dove per me è casa, ad Agropoli, il posto in cui sono nata e dove ogni anno si riunisce tutta la mia famiglia. I sapori del Cilento sono nel mio DNA, così come i suoi profumi e i suoi colori. Quella campana è una cucina semplice, fatta in gran parte di sapori della terra, tante verdure e tanto mare, i due ingredienti che uso di più nei miei piatti e che appartengono alla dieta mediterranea, la bibbia con cui sono cresciuta e che mi ha formata. Ho respirato la vera cultura del cibo in famiglia e, nonostante i miei studi mi portassero altrove, alla fine ho deciso di concedermi la straordinaria opportunità di fare quello che amo di più, quello che ho imparato ad amare a casa.
In cosa si differenzia, secondo te, la cucina di bordo rispetto alla cucina di un ristorante? La prima cosa che salta agli occhi nella cucina di uno yacht sono gli spazi, e te lo dico perché ho avuto la fortuna di cucinare a bordo del famoso veliero La Signora del Vento. La ricordo come un’esperienza straordinaria che mi ha regalato una grande soddisfazione, ma che fatica! In cucina ero da sola, insieme a me un giovane ragazzo che mi aiutava a sfilettare. Gli spazi erano talmente ridotti che in due inciampavamo l’uno sui piedi dell’altro. Una bella sfida: dovevo preparare una cena da quattro portate per cinquanta persone! Ho scelto piatti di mare molto semplici e mi sono aiutata anche con i crudi, ma è stata determinante una giusta organizzazione. Nella cucina di un ristorante, che è una cucina da battaglia, oltre a tanti piani cottura, si ha la fortuna di avere spazi grandi ed una serie infinita di strumenti. È per questo che credo che gli spazi ridotti della cucina di uno yacht impongano un risparmio mirato ed una gestione mentale molto particolare che tuttavia, nonostante le contingenze, non rischi mai di compromettere il gusto e la golosità che la buona tavola in barca richiede. Probabilmente, durante la progettazione della cucina di uno yacht si pensa al design e all’estetica, che però non sono per forza sinonimo di funzionalità. Forse, il posto in cui sistemare un particolare elettrodomestico non è il primo pensiero dell’architetto. Certo, se l’armatore si dichiara un grande appassionato di vini, potremmo facilmente trovare una wine cellar ad hoc o qualche accessorio in più ma, in realtà, ciò che dovrebbe contare sono le esigenze di chi in cucina ci deve lavorare. Dal pentolame agli strumenti base, dai piani cottura ai forni o ai frigoriferi, sono tutte cose che difficilmente un armatore, o chi progetta la cucina, può immaginare nel dettaglio. Io credo che solo uno chef sappia davvero di cosa c’è bisogno per poter cucinare a bordo e per farlo bene. Una strumentazione completa permette allo chef di creare anche una grande varietà e raggiungere un risultato finale estremamente soddisfacente. Pensiamo all’abbattitore: imprescindibile nella cucina di qualsiasi ristorante, determinante in barca per poter conservare e poi cucinare prodotti freschi come il pesce appena pescato o quello preso al mercato del porto. Spesso però, nella cucina di uno yacht lo spazio dedicato a questo strumento indispensabile, e a tanti altri, non c’è o è ridotto.

A Phuket ho imparato la cucina Thai che, come la nostra, usa molte verdure, ma aggiunge anche tanta frutta e anche molti aromi come il lemongrass e lo zenzero.
Stai dicendo che consiglieresti agli architetti e ai progettisti di confrontarsi con un esperto prima di disegnare la cucina di uno yacht? Credo che sarebbe una bella soluzione.
Oggi, con il tuo programma “L’Italia a Morsi” fai conoscere e rilanci una cucina di tradizione. Quanto pensi che uno chef italiano debba salire a bordo con una gastronomia tricolore in valigia e quanto invece pensi che possa osare? Domanda difficile. Si tratta di capire quanto uno chef debba restare fedele alla sua cucina e quanto invece possa renderla piacevole e, soprattutto, ruffiana. A me piacerebbe molto che un cuoco mantenesse la sua filosofia e la sua italianità. Una volta ho discusso di questo anche con Filippo: lui è convinto che se andasse a lavorare all’estero non cambierebbe la cottura della sua pasta nemmeno di una manciata di secondi. È un pensiero molto rigido, che richiede grande personalità, ma se parliamo di uno chef che cucina a bordo di uno yacht, dobbiamo aspettarci che tenda a fare quello che piace al suo armatore. Parlando di cuochi italiani, però, dico che la tradizione deve restare pulita. Mi spiego: la più grande fortuna di un italiano che faccia della cucina il suo mestiere è essere nato in Italia ma, ancor più, aver avuto una bisnonna, una nonna o una mamma che gli abbia insegnato la tradizione, la stessa che io cerco e vado riscoprendo in giro per l’Italia. Non sono un’integralista della tradizione, ma dico che bisogna conoscerla bene per potersi permettere di stravolgerla, differenziarla o contaminarla. Sono sempre a favore della commistione di culture diverse in cucina, dell’uso eclettico di ingredienti nuovi, ma credo che uno chef debba essere consapevole di quello che la sua cultura gli ha dato. L’esperienza orale delle nostre nonne batte qualsiasi libro di cucina. Il valore aggiunto di uno chef italiano sta nel portare in tavola la saggezza di un piatto d’antan che, con i suoi sapori, i suoi ricordi, i suoi tempi diventa motivo di orgoglio per lo chef e regala all’armatore l’emozione dell’esclusività. Questo è l’aspetto romantico della cucina che mi piace scoprire e che fa parte del fascino del cibo, del suo potere evocativo, del suo valore in quanto cultura e conoscenza. In cucina dobbiamo sempre studiare, imparare cose che altri non conoscono, riscoprire saperi antichi che si sono persi. È necessario trovare un punto d’incontro tra tradizione e innovazione, ma ciò è possibile solo se si padroneggia una sconfinata conoscenza che nasce da uno studio approfondito e costante.

Ho studiato nelle cucine dei migliori ristoranti di Gerusalemme e Tel Aviv e ho respirato il fervore di una cucina diversa, fatta di accostamenti attualissimi e interpretata da giovani chef emergenti.
Spesso gli chef di bordo scendono in banchina per andare alla scoperta di mercati locali e prodotti tipici. Tu viaggi tanto per lavoro e hai potuto sperimentare le cucine di tutto il mondo: in quali porti ti piacerebbe approdare per poterti ispirare e sperimentare piatti nuovi? Il primo posto che mi torna alla mente è Phuket, in Thailandia. Qualche anno fa, ho avuto la fortuna di affiancare uno chef locale per un’intera settimana. Con lui ho imparato la cucina Thai che, come la nostra, usa molte verdure, ma aggiunge anche tanta frutta e, in maniera coraggiosamente ostentata, anche molti aromi come il lemongrass e lo zenzero che arricchiscono il piatto con un’intensa balsamicità che sarebbe geniale abbinare anche ai nostri sapori. Di questa cucina amo l’azzardo dell’unione di ingredienti molto diversi tra loro che regala, oltre all’eccellenza nel gusto, anche un indimenticabile tripudio di colori. Un’altra tappa sarebbe il porto di Palamós, in Spagna, per scendere a terra e partecipare alla tradizionale asta del pesce, un evento a cui ho assistito e di cui ho un ricordo vivido divertentissimo. Tornerei in barca con il gambero, l’ingrediente che caratterizza tutta la cucina della zona e che può diventare il protagonista di moltissime ricette. Per farmi ispirare, mi piacerebbe approdare in Israele, un mio luogo del cuore. Lì ho studiato nelle cucine dei migliori ristoranti di Gerusalemme e Tel Aviv e ho respirato il fervore di una cucina diversa, fatta di accostamenti attualissimi e interpretata da giovani chef emergenti. Tra le tante cose, ho imparato l’importanza della marinatura, una tecnica che consiglio ad ogni chef di fare propria perché permette di abbattere i tempi di cottura, un trucchetto che in barca può tornare molto utile. Se riuscissimo ad attraccare a Funchal, nell’Arcipelago di Madeira in Portogallo, il posto dove nei miei sogni vorrei invecchiare, porterei a bordo il Bolo do Caco, un pane tipico dell’arcipelago che si farcisce con il Chorizo, il salame locale, e lo preparerei in mille modi.

L’armatore è di solito molto presente anche in cucina. A parer tuo, come dovrebbe essere il suo rapporto con lo chef? L’armatore dovrebbe sempre fidarsi. Se uno chef è a bordo, è perché lui lo ha scelto, e intervenendo troppo sulla sua cucina, rischierebbe di avere piatti monotoni. In barca è bene lasciare che il cuoco osi per capire fin dove sa e può spingersi. Diventa una sfida che l’armatore gli lancia: fammi vedere quello che sai fare! E lo chef deve coglierla al volo. Si tratta di un delicato gioco di equilibrio su cui stabilizzarsi per individuare la rotta e arrivare all’eccellenza.
Se navigassi in Spagna, scenderei a terra a Palamós e tornerei in barca con il gambero, l’ingrediente che caratterizza tutta la cucina della zona.
Gli spaghetti al pomodoro sono il tuo piatto preferito. Lo proporresti ad un armatore? Ma certo! Mangiare un piatto di spaghetti al pomodoro uguale ad un altro è impossibile. Se ci pensi, l’unica persona che lo fa uguale sempre e da sempre è la mamma. Nessun altro. È la cosa più buona sulla faccia della terra e sicuramente in barca sarebbe una delle prime cose che preparerei, ma non pensiate sia semplice riuscire a farlo veramente buono. Nella sua estrema semplicità, che pur richiede la perfezione assoluta, questo piatto ha una fortissima personalità, e non è scontato che uno chef sappia esserne all’altezza. È da lì che si capisce l’anima di un cuoco. Il segreto sta nel tenere bene a mente che la cucina è un grande bluff: il cibo diventa una macchina del tempo, se uno chef riesce a far vibrare le corde dell’emozione di un armatore ha vinto.
Oltre all’amore per la cucina, sei affascinata anche dall’architettura e dal design. In questi ultimi anni sono tanti i cantieri navali che hanno deciso di lasciare spazio a linee ricercate e ad un design che si impone sull’estetica della barca. Se immagini il tuo yacht ideale, qual è la prima cosa che ti viene in mente? Mi emozionerebbe avere una cucina professionale a bordo. Sarebbe bello se potessi parlare con i designer del cantiere per raccontare le mie priorità. Nella mia vita tutto accade in cucina. In cucina posso leggere, raccontare, creare, ragionare, lavorare. Sì, credo che sarebbe questo il mio desiderio anche in barca, proprio come a casa. Però confesso di aver sognato guardando gli interni che Vincenzo De Cotiis ha realizzato per il Magellano 25 Metri di Azimut, un vero capolavoro. Ecco, forse il mio yacht me lo immagino anche così.

Grazie a Peppe Guida, un grande chef della Costiera Amalfitana, ho fatto questa incredibile scoperta per un piatto unico: spaghettini, limoni e Provolone del Monaco.
Lo chef si ritrova davanti ad un’impasse. Cosa gli consigli di preparare? Davanti ad un problema in cucina, io consiglio sempre semplicità, pochi ingredienti e creatività. Mi viene subito in mente una ricetta facile ma buonissima di Peppe Guida, un grande chef della Costiera Amalfitana. Ho fatto questa incredibile scoperta la scorsa estate, solo tre ingredienti per un piatto unico: spaghettini, limoni e Provolone del Monaco. Dopo aver sbucciato i limoni, si lasciano macerare le bucce in acqua per una notte. Nella stessa acqua, si cuociono gli spaghettini che, a metà cottura, vengono trasferiti in padella con il provolone per la mantecatura da fare con poca acqua di cottura e pepe nero. È un piatto facilissimo ma, soprattutto, di grande ispirazione e può stimolare la fantasia dello chef e aiutarlo a pensare a cose nuove.

La nostra chiacchierata è finita, ci salutiamo, ma sento la voce di Chiara che mi rincorre nel telefono: “Già che ci siamo, io allo spaghettino al limone aggiungerei anche un gambero crudo!”. Una personalissima variazione gourmande dell’ultimo secondo che nasce dalla geniale semplicità con cui Chiara pensa sempre al cibo, con il mare negli occhi.
(Chiara Maci, l’importanza delle emozioni – Barchemagazine.com – Dicembre 2020)