Il rischio di alcune scelte strategiche, figlie della globalizzazione, è quello di creare danni permanenti alla nostra capacità e autonomia industriale
by Francesco Michienzi
“E guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere se poi è tanto difficile morire…”. L’Europa è un po’ come il protagonista della canzone di Lucio Battisti. Le sue scelte strategiche in materia di riduzione delle emissioni sono figlie di una stagione della globalizzazione che sta mostrando tutti i suoi limiti. La legislazione approvata dal Parlamento Europeo prevede l’obbligo per le nuove autovetture e i nuovi veicoli commerciali leggeri di non produrre alcuna emissione di Co2 dal 2035. L’obiettivo è quello di ridurre del 100% le emissioni di questi tipi di veicoli rispetto al 2021.
Gli obiettivi intermedi di riduzione delle emissioni per il 2030 sono stati fissati al 55% per le autovetture e al 50% per i furgoni. Questa scelta è il frutto di un’idea di un mondo globalizzato nel quale ogni singolo attore si sarebbe dovuto ritagliare un ruolo specifico in una visione collettiva. La pandemia, la guerra in Ucraina, le pressioni della Cina su Taiwan, solo per citare i temi principali, hanno suonato un campanello d’allarme che purtroppo non sta determinando alcuna azione concreta. La verità è che la vocazione al solo elettrico fa un regalo alla Cina, crea licenziamenti e non aiuta l’ambiente. Nonostante il desiderio di Xi Jinping di dare impulso allo sviluppo verde della Cina, riducendo le emissioni di CO2, il presidente cinese si deve confrontare con le sfide della crescita economica e della sicurezza energetica.

Nel 2022 il consumo di carbone è cresciuto del 3,3% e resta la principale risorsa energetica del paese. Inoltre, la produzione delle moderne centrali elettriche a carbone è stata aumentata. Molto banalmente, la Cina è, e sarà sempre di più, uno dei protagonisti nella produzione di motori elettrici, accumulatori, pannelli solari e veicoli a emissioni zero. Ma i suoi target reali di riduzioni guardano al 2060. I cinesi si tengono le mani libere per inquinare con le centrali a carbone, mentre l’occidente si impone politiche che obiettivamente non è in grado di rispettare, subendo tutti i danni economici della situazione.
È IMPERATIVO INTERROGARSI SULLA LOGICA DEI PROCESSI CHE DETERMINANO L’ARCHITETTURA GLOBALE DELLE FORZE SU UNA SCALA PLANETARIA IN POLITICA, ECONOMIA, ENERGIA, DEMOGRAFIA E CULTURA.
Anche nell’industria nautica tutte le soluzioni sul tavolo sono, in questo momento, esercizi teorici che difficilmente potranno essere adottate su larga scala. Molto meglio concentrarsi sullo sviluppo di carene più efficienti, sulla riduzione dei pesi, oppure su sistemi propulsivi meno inquinanti, senza la spada di Damocle di una data troppo vicina per essere realistica. Personalmente non sono contro alla transizione ecologica, penso solo che si debba fare un ragionamento più complessivo, che tenga conto di tutti i fattori in gioco. Il potenziale industriale, finanziario ed economico degli Stati Uniti e dell’Europa si deve confrontare maggiormente, e con più determinazione, con quello della Cina. È imperativo interrogarsi sulla logica dei processi che determinano l’architettura globale delle forze su una scala planetaria in politica, economia, energia, demografia e cultura. Sarebbe utile lavorare anche su una separazione più netta delle regole che riguardano il diporto nautico rispetto alla marina commerciale, dove il settore marittimo è sulla buona strada per raggiungere gli ambiziosi obiettivi di riduzione della Co2 previsti dal protocollo dell’International Maritime Organization per essere un settore a emissioni zero.

Le emissioni totali del trasporto marittimo nel 2018 sono diminuite del 30% rispetto al 2008, nonostante una crescita del 40% del commercio marittimo nello stesso periodo. La strada dell’uso dell’idrogeno è certamente la più valida in questo momento, ottima per lo shipping, ma difficilmente applicabile per le barche da diporto. L’industria nautica è un settore globale che richiede regole globali, qualsiasi alternativa produrrebbe un mosaico di regimi di riduzione della Co2 particolarmente caotico. Mi rendo conto di andare controcorrente, ma mi piacerebbe un dibattito approfondito sull’impatto della nautica da diporto sull’ambiente. Preferibilmente non ideologico, ma realistico e più scientifico basato su studi e dati reali, che spinga i legislatori nella direzione più corretta.
L’INDUSTRIA NAUTICA È UN SETTORE GLOBALE CHE RICHIEDE REGOLE GLOBALI, QUALSIASI ALTERNATIVA PRODURREBBE UN MOSAICO DI REGIMI DI RIDUZIONE DELLA CO2 PARTICOLARMENTE CAOTICO.
Purtroppo rischiamo di essere vittime del greenwashing. Alcune aziende pensano che basti far finta di dimostrare un attaccamento all’ambiente e al pianeta per guadagnare punti in reputazione e immagine aziendale. Una pratica ingannevole, usata come strategia di marketing per dimostrare un finto impegno nei confronti dell’ambiente con l’obiettivo di catturare quei consumatori attenti alla sostenibilità. Le linee guida per l’utilizzo di environmental marketing claims impongono alle aziende chiarezza e trasparenza nel definire entità e portato del proprio impegno. Nella nautica il fenomeno è ancora poco diffuso, il pericolo è che gli utenti potrebbero essere illusi da messaggi che confliggono con la realtà delle cose. L’industria nautica si deve attrezzare per comunicare correttamente i valori della sua attività, anche difendendo posizioni che, apparentemente, possonosembrare non in linea con il dibattito corrente sulla difesa del pianeta.
(A fari spenti – Barchemagazine.com – Luglio 2023)